Avendo io infin qui ragionato dell’opere altrui con quella maggior diligenza e sincerità che ha saputo e potuto l’ingegno mio, voglio anco nel fine di queste mie fatiche raccorre insieme e far note al mondo l’opere che la divina Bontà mi ha fatto grazia di condurre; perciò che, se bene elle non sono di quella perfezzione che io vorrei, si vedrà nondimeno, da chi vorrà con sano occhio riguardarle, che elle sono state da me con istudio, diligenza et amorevole fatica lavorate, e perciò, se non degne di lode, almeno di scusa, sanzaché, essendo pur fuori e veggendosi, non le posso nascondere. E però che potrebbono per aventura essere scritte da qualcun altro, è pur meglio che io confessi il vero et accusi da me stesso la mia imperfezzione, la quale conosco davantaggio: sicuro di questo, che se, come ho detto, in loro non si vedrà eccellenza e perfezzione, vi si scorgerà per lo meno un ardente disiderio di bene operare et una grande et indefessa fatica e l’amore grandissimo che io porto alle nostre arte. Onde averrà, secondo le leggi, confessando io apertamente il mio difetto, che me ne sarà una gran parte perdonato.
Per cominciarmi dunque dai miei principii, dico che avendo a bastanza favellato dell’origine della mia famiglia, della mia nascita e fanciullezza, e quanto io fussi da Antonio mio padre con ogni sorte d’amorevolezza incaminato nella via delle virtù, et in particolare del disegno, al quale mi vedeva molto inclinato, nella Vita di Luca Signorelli da Cortona mio parente, in quella di Francesco Salviati e in molti altri luoghi della presente opera, con buone occasioni non starò a replicar le medesime cose. Dirò bene che dopo avere io ne’ miei primi anni disegnato quante buone pitture sono per le chiese d’Arezzo, mi furono insegnati i primi principii con qualche ordine da Guglielmo da Marzilla franzese, di cui avemo di sopra raccontato l’opere e la vita.
Condotto poi, l’anno 1524, a Fiorenza da Silvio Passerini cardinale di Cortona, attesi qualche poco al disegno sotto Michelagnolo, Andrea del Sarto et altri. Ma essendo, l’anno 1527, stati cacciati i Medici di Firenze, et in particolare Alessandro et Ippolito, coi quali aveva così fanciullo gran servitù per mez[z]o di detto cardinale, mi fece tornare in Arezzo don Antonio mio zio paterno, essendo di poco avanti morto mio padre di peste; il quale don Antonio, tenendomi lontano